Testo 3 - Civiltà Greca

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CORO: Chi desidera vivere oltre il limite logico, custodisce nell’anima – dubbi non ho – la follia patente. Sedimenti molteplici lunghi giorni ci lasciano di dolore, né scernere sai le cose piacevoli, se mai si varchi il limite giusto. Un solo valido ausilio tutti pareggia, quando dall’Ade la Parca si svela priva di canti, di cetre, di danze, tutto suggella: morte. È ventura non essere, gran cosa discendere, se alla vita s’emerse, là donde al mondo si venne, presto. Ché, svanita la bella età col suo lieve delirio, quale angoscia sui margini resta o pena con noi non è? Tumulti, liti, odiosità e cruente risse; suprema giunge, sinistra, senza vigore né amici né amori, la Vecchiezza, cui fanno corteggio mali di mali sempre. In essa, non io solo, ma costui – nordica scogliera, che la furia batte di qua, batte di là, dell’onda – è squassato da mali che si frangono atroci, compagni perenni, per lui, di vita, quali di là dove muore il dì o dove sorge a Est, da mezzodì altri, e poi dai monti Rifei tenebrosi.
CORO: Novelli mali giungono, strofe mali terribili da questo cieco, o sta su di noi l’ineluttabile. Avuoto non va mai, lo so, nessun decreto degli dèi. Il tempo sta vigile: oscurità, crescita a questo, a quello dà dall’uno all’altro dì. L’etere, Zeus, tuona, ahimè!
ÈDIPO: Figliole mie, figliole, c’è qualcuno che qua mi porti quel grand’uomo, Tèseo?
ANTIGONE: Padre, che vuoi da lui? perché lo chiami?



ÈDIPO: Presto l’alato tuono sottoterra mi condurrà. Chiamatelo al più presto.
CORO: Fragore, sì, precipita, viene da Zeus ed ha forza indicibile. Già le mie chiome si rizzano e temo, ché la folgore celeste nuovi lampi dà. Che cosa mai recherà? Temo; perché sterile, senza una scia di guai non si scatena mai. Etere, tu grande, Zeus.
ÈDIPO: Figlie, oramai sopra quest’uomo è giunta la fatidica fine e non c’è scampo.
ÈDIPO: Cose che resteranno alla città, immuni da vecchiezza, figlio d’Ègeo, io ti dirò. Ti guiderò da solo, senz’appoggio di guida, al luogo in cui è destino ch’io muoia. E tu non dirlo a nessun uomo mai, dove si trova celato e in che paraggi, perché a te offra miglior difesa degli scudi e di lance dedotte dai vicini. Tabù che non si possono sfiorare con la parola apprenderai tu stesso, quando là verrai solo: non potrei farne motto né a questi cittadini né alle figliole mie, per quanto amate. Tu serbane il segreto fino al termine della tua vita: solo allora svelalo all’uomo più eminente, e così faccia lui col suo successore. In questo modo, attacchi non verranno alla tua patria da parte degli Sparti. Sono molti gli Stati che trascendono a violenze, anche se bene amministrati. Ma gli dèi vedono bene, anche se tardi, quando taluno trascura il divinoe si volge a follie. Che non t’accada mai questo, figlio d’Ègeo. Ma è superfluo insegnare a chi sa. Piuttosto andiamo verso quel luogo e non tergiversiamo, poiché il segno divino mi sospinge. Figliole, voi seguitemi. Oramai io mi rivelo vostra nuova guida, come voi foste al padre. Su, venite, senza toccarmi: lasciate ch’io trovi da me la sacra tomba, dove il fato vuole ch’io sia nascosto in questo suolo. Di qua, di qua venite: mi conducono da questa parte Ermete psicopompo e la dea di sotterra. Luce cara, senza bagliore, una volta eri mia: questa è l’ultima volta che il mio corpo ti sfiora; vado già per quella strada suprema, per nasconderlo nell’Ade. Tu, diletto fra gli ospiti, con tutto il tuo paese e i tuoi sudditi, siate felici, e quando sarò morto, lieti di fortune perenni, ricordatemi. [Esce con Tèseo e le figlie.]



CORIFEO: Se fosse lecito alla segreta dea rendere omaggio, e preci, sire dei Mani, a te, Ade, te, Ade, te supplico: né con fatica, né con pesanti lai cali l’ospite là dove le umbratili lande i morti celano, dove lo Stige va. Se tanti guai vennero anche ciechi e vani, un dio che giusto sia t’ergerà di nuovo. Ctonie divinità, inaccessibile fiera che innanzi a porte levigatissime giaci, e lì ringhi e sei vigile, dalle caverne presso Plutone (ché si racconta così!), Figlia di Tartaro e di Gea, sia Cerbero a fare largo a lui, all’ospite che laggiù, alle plaghe tristi, va. Invoco te, dio del Sonno eterno.
[Entra in scena un Nunzio.]
NUNZIO: In breve potrei dirvi, cittadini, «Èdipo è morto»; dire il come e il quanto di ciò che avvenne, in breve non si può.
CORIFEO: È morto l’infelice?
NUNZIO: Ti ripeto ch’egli ha lasciato per sempre la vita.
CORIFEO: Come? Per sorte divina e indolore?
NUNZIO: C’è soprattutto da stupire. Come mosse di qui, lo sai da te, mi pare – eri presente: – senza guida alcuna, ma facendo lui stesso a noi da guida. Quando giunse alla via che scende in basso, radicata alla terra con gradini di bronzo, si fermò sopra un sentiero dei tanti in cui si dirama la strada, presso un cratere concavo, che reca incisi i patti di Tèseo e Pirítoo. In un punto mediano fra il cratere e la pietra di Tòrico, fra il pero selvatico e il gran tumulo di pietra, si sedette. Si sciolse poi le luride vesti, quindi in un urlo comandò alle figlie d’attingere lavacri d’acqua corrente e libami. Recatesi al colle verdeggiante di Demetra ch’è lì di fronte, eseguirono in breve quell’ordine del padre, e l’adornarono con lavacri e con vesti, come s’usa.





Lui si compiacque, poiché ognuno agiva né v’erano carenze, quando a un tratto tuonò con un gran rombo il Dio degl’Inferi: un brivido percorse le ragazze, che caddero piangendo alle ginocchia del padre, e non cessavano di battersi il petto e di profondersi in lamenti lunghissimi. All’udire d’improvviso quel rombo amaro, lui piegò le braccia attorno al loro collo e disse: «Figlie, quest’oggi vostro padre non è più. Tutto è per me finito, non avrete più faticose cure per il mio nutrimento, ben duro, figlie mie, lo so bene; ma c’è una cosa sola, una parola che ripaga d’ogni pena: è l’amore; e amore da nessuno più che da me ne aveste, da quest’uomo di cui vivrete il resto della vita prive».Abbracciati l’uno all’altro, tutti con singhiozzi piangevano. Finiti tutti i lamenti, quando non saliva più nessun grido, vi fu gran silenzio; ma d’un tratto la voce di qualcuno gli parlò, sì che a tutti si drizzarono per la paura i capelli. Era il dio che più volte e in più modi lo chiamava: «Èdipo, dico a te, cosa s’aspetta per muoversi? Da parte tua s’indugia». Come s’accorse che il dio lo chiamava, disse che Tèseo, re di questa terra, s’avvicinasse. E come s’accostò, gli si rivolse:«Mio diletto amico, da’ la tua mano, come pegno antico di fede, alle mie figlie, e voi, figliole, datela a lui. Prometti che giammai le tradirai deliberatamente e che ciò che farai, sempre pel loro bene, in piena coscienza, lo farai». Quello, da galantuomo, senza indugio, a fare questo s’impegnò giurando. E fatto questo, con le cieche mani Èdipo tasta le sue figlie e dice: «Figliole, avete sopportato tanto: occorre forza d’animo. Movetevi da questo luogo, e ciò che non è lecito non vogliate vederlo né ascoltarlo. Andate via, su, presto! Sia presente Tèseo soltanto – colui che ha diritto – e conosca i misteri che si compiono». Lo udimmo tutti dire queste cose; seguimmo le ragazze senza lacrime, e tuttavia gemendo. Come fummo lontani, poco dopo ci voltammo a guardare laggiù. L’uomo


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