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La datazione di quella che fu considerata da una tradizione tenace, risalente ad Aristotele ed echeggiante nel Sublime, la più perfetta espressione del genio tragico greco, l’Èdipo re, sembra da stabilirsi non già al 425 ca., ma intorno al 411. Nella gara tragica, il poeta fu secondo, dopo Filocle. L’Èdipo re è l’indagine d’un antefatto. Laio, re di Tebe, e sua moglie Giocasta affidarono un giorno lontano ad un pastore del Citerone, per esporlo, un figlio nato contro il monito di Apollo e destinato a turpe sorte: uccidere suo padre, sposare la madre. Il pargolo, coi «piedi gonfi» (ciò significa il suo nome) per le trafitture dei ceppi, fu consegnato dall’impietosito ministro di morte a un pastore di Pòlibo, re di Corinto, e adottato per figlio da questo e da Mèrope. Più tardi, colpito dall’ingiuriosa allusione d’un ubriaco a una sua origine spuria, Èdipo mosse a Delfi a interrogare l’oracolo; il dio rinnovò il truce responso: uccidere il padre, sposare la madre: tale il destino di Èdipo. Per schivarlo, egli fuggì da Corinto; ma in un crocicchio uccise, per legittima difesa, un vegliardo e i suoi servi, a eccezione di uno. Liberata Tebe dal flagello della Sfinge, ne fu acclamato re, sposò la vedova del re morto, e n’ebbe figli. Quando s’apre l’azione, una peste dilania Tebe, senza scampo. Creonte, cognato di Èdipo, torna da Delfi: il dio vuole vendetta della morte di Laio; il reo di quel sangue è l’impuro per cui patisce la città. Sollecito dell’angoscia comune, Èdipo scaglia maledizioni atroci, esige la ricerca e il bando dell’omicida. Ma il colpevole è lui: lo denuncia, eccitato, Tiresia, facendogli insieme carico di parricidio e d’incesto. In violenti contrasti, Èdipo accusa l’indovino e Creonte d’un complotto ai suoi danni. Giocasta storna l’ira; per mostrare invalidi gli oracoli ricorda che Laio morì, secondo quanto fu detto allora, ucciso da predoni in un trivio. L’ultima circostanza accende i sospetti di Èdipo, che ricerca il testimone superstite della strage. Ma la notizia della morte di Pòlibo, recata da un Messo di Corinto (primo Nunzio), rende assurdo l’oracolo: Èdipo non ha ucciso suo padre. Il rischio dell’incesto rimane: quando il
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Messo l’esclude, attestando che Èdipo non è figlio di Pòlibo e di Mèrope, la gioia di Giocasta si converte nell’intuizione tragica del vero, che la spinge ad impiccarsi. Èdipo, in cieca ebbrezza, si proclama figlio della Fortuna; ma il confronto fra lo straniero (quello stesso pastore che recò un giorno alla reggia corinzia il bambino dai piedi gonfi) e il vecchissimo testimone della morte di Laio (l’altro pastore, che lo scampò da morte) forza il disperato sovrano all’evidenza della sua sozzura inconscia. Èdipo si strappa gli occhi con le fibbie d’oro di Giocasta. Brancola verso le figlie, e s’allontana dalla città e dal cospetto degli uomini. La freddezza di Creonte, il valore meramente scenico di Tiresia furono rilevati come difetti e forse lo sono. Gli altri personaggi sono più vivi: Giocasta è tesa in una caparbia difesa di Èdipo contro Èdipo, disprezza gli oracoli, non certo per ateismo ma per un’urgenza di salvezza che trabocca in cinismo; il vecchio pastore sembra precorrere certe figure d’umili consci e chiusi degli scrittori russi. Tuttavia i caratteri sono tutti come travolti dalla vicenda, che progredisce in un fluttuare alterno di scoramenti e d’esultanze, d’incubi e di schiarite, di fermezze razionali e di lamenti.
Nel congegno, tanto ammirato in ogni tempo, fino all’irriverente accostamento di questa tragedia ad abili macchine poliziesche, pulsa un arcano ritmo, per cui giungono a coincidenza le fila degli atti compiuti e patiti. La vicenda s’ingrana sulla desolazione d’una peste e approda a una desolazione più irreparabile, come la morte dell’anima è più disperata della morìa dei corpi. Ma la macchina è mossa da Èdipo. Non è del tutto vero che Aiace sia l’eroe che agisce, Èdipo l’eroe che patisce: Aiace patisce la follia, Èdipo agisce l’indagine. È turbato dal sospetto, dalla paura, dagli scrupoli; proprio là dove Giocasta s’industria di spegnere la sua sete di conoscenza, Èdipo s’accanisce, coerente con quella natura che già lo mosse a dar peso all’insinuazione dell’ubriaco di Corinto. Direi che in questa ostinata ricerca si riscatti da non so che svirilito pallore di automa la sua magnanimità d’eroe, che lo fa consorte agli altri eroi del poeta. Certo, in fine, patire e agire annegano nel lago d’assurdo: quando l’ultimo augurio di vivere inconsci di sé o il voto di scegliere il tempo della morte si fanno vani, è l’annullamento, la smemorata chiusura dei sensi; la voce che rintrona, quasi d’altri, nella voragine del buio non ha altra