[Rientra Danao, di ritorno da Argo]
Danao: Figlie, fatevi forza. Buoni, per noi, i decreti sovrani presi dal popolo qui, del paese.
Coro: Padre, sii benedetto, che m’annunci la vita! Narraci tutto: quanto abbraccia il decreto, su che punto s’addensa l’alzata di mano, forza del popolo unito?
Danao: Argo s’è espressa senza oscillare: ed è rinata la vita in questo vecchio cuore! Blocco di popolo. Scatto di destre, le buone: palpita l’aria. Si concreta la legge. Eccola: «Ci trapiantiamo su
questo suolo, padroni di noi, immuni da agguati. Qui è il nostro rifugio solenne. Nessuno al mondo ci tocca: né Argivo, né aggressore straniero. Se si tenta un atto di forza, sia la morte civile, l’esilio ufficiale per chi, cittadino, rifiuta soccorso ». Ecco, è il testo. Il re Pelasgo l’ha spinto, perorando per noi. Si sgolava davanti alla gente: badasse, Argo, a non fare carnoso, giorno per giorno, il Rancore di Zeus delle Suppliche, grumo di pesti accoppiate, nostrana e straniera, zanne spettrali, ghiotte di strazio. Non esiste rimedio. Attento, con la destra il popolo siglò la proposta. Non occorse l’appello, per voce d’araldo. Certo, l’assemblea pelasga fu avvinta da propaganda sinuosa. Ma alla fine, Zeus è il sovrano.