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Nel 468, all’Eurimedonte, Cimone aveva battuto il nemico, si sarebbe detto definitivamente, e fu probabilmente allora che Pindaro levò il suo inno ad Atene, con grande sdegno dei concittadini. Ma le vittorie sul mondo extraellenico erano per lui qualcosa di sublime e negativo, il salvataggio da un male che avrebbe voluto inesistente; le celebrava ma poi tendeva a dimenticarle.12 Il suo ideale inconscio era un’Ellade articolata in spazi solenni e rispettati, dove i «fondatori di città» si avventuravano rari dietro l’imperioso consiglio di Apollo (P. IV).
Soprattutto, il prestigio di Cimone era precario. Una ‘sinistra’, quella del giovane Pericle e dell’odiato Efialte, guadagnava spazio, non senza l’irresistibile forza dell’imponderabile, della propaganda spicciola, dei piani inclinati. Ne era complice qualcosa di maligno che nasceva nel mondo dorico, di cui Pausania fu il terribile esempio. Non si era mai visto nella storia — ma la storiografia non era nata — un caso Pausania. Il re, il vincitore di Platea, è corrotto dallo sfarzo persiano, ha rapporti con il nemico, mira a una signoria personale, profana la tradizione, lo stile, tutto quello che Pindaro chiama «la legge di Egimio». Tucidide lo dirà chiaro che Pausania distrusse il prestigio morale di Sparta, ciò che era anche una grande forza politica. Nel 464 a Sparta ne decisero la morte. Si era rifugiato nel tempio di Pallade; i luoghi sacri godevano d’un diritto d’asilo assolutamente inviolabile. Allora si vide la madre del re, in silenzio, posare una pietra sulla soglia. Su quella fu costruito il muro e la porta bloccata; lo spiarono e non permisero che spirasse nel luogo sacro, ma il sacrilegio restò. Al quale molti, probabilmente anche Pindaro, attribuirono il disastroso terremoto che avvenne poco dopo, che rase al suolo Sparta, provocò l’insurrezione dei Messeni e degli eterni schiavi Iloti e infine causò la rottura con Atene. Mai si toccò meglio con mano quanto la serena Sparta fosse un accampamento di dominatori militari — gli Spartiati — su un mondo di schiavi pieni di odio. Cimone non tollerò, e accorse in aiuto all’assedio di Itome, la fortezza degli insorti. Non solo Itome non fu espugnata, ma gli spartani licenziarono quelle truppe, dice Plutarco, troppo ardimentose. Tornarono furiosi e la Città si vendicò dello smacco ostracizzando Cimone. La politica delle «due gambe» della Grecia era finita. Sormontò la democrazia di Efialte, che osò diminuire non poco il potere della cittadella della tradizione, l’Areopago, del quale Eschilo nell’Orestea (458) difese con energia l’origine divina.
L’assassinio di Efialte non rallentò l’imperialismo
democratico. Atene si lanciò in
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una guerra su tutti i fronti e di scala grandiosa, contro la Persia, a Cipro, in Egitto, e contemporaneamente contro i vicini, Corinto, Epidauro e naturalmente Egina. Sparta aveva rifiutato nobilmente l’alleanza proposta dal nuovo Re dei re, Artaserse; ma poi non potè non intervenire, prima per procura e infine direttamente. La provocazione più grave fu l’invasione da parte dei Focesi della piccola Doride, la culla della loro gente. Sparta vi mandò 11.500 opliti e pensò di fare della Beozia un antemurale contro Atene. Permise che Tebe ricostruisse le mura e diventasse ancora la capitale e la fortezza dell’antico paese. Come tanti anni prima, le due figlie dell’Asopo, come si esprimevano la Pizia e Pindaro, combattevano a fianco contro la hybris. Ma furono ancora meno fortunate. Atene batté Egina per mare e si lanciò sulla Beozia, saccheggiandola orrendamente e mirando a tagliare fuori gli opliti peloponnesiaci che marciavano per il ritorno. Ci si scontrò presso Tanagra, passata alla storia come una sconfitta di Atene perché così la definirono Tucidide (I, 108) e sulle sue orme il beote Plutarco. Ma Diodoro, che disponeva di più fonti e si pose già il problema, parla circostanziatamente di vittoria e Polieno ha letto da altre parti dettagli militari. Probabilmente Tucidide la giudicò una sconfitta nella sostanza, perché gli ateniesi,
nonostante le gravi perdite, non riuscirono ad impedire il ritorno degli opliti, che durante la marcia fecero allegramente strage dei preziosi olivi attici. Ad ogni modo, solo due mesi dopo, la guerra fu decisa a Enòfìta, chiara e definitiva sconfitta dei beoti, che si batterono con disperazione. In una di queste due battaglie cadde quello Strepsiade che Pindaro rievoca nella settima istmica con dolore e ammirazione. Poco dopo tramontò anche Egina, per sempre. Atene le impose il disarmo, un pesante tributo e l’«alleanza». Era il 457, Pindaro aveva superato i sessant’anni.
Verrà la pace e verrà anche la rivincita, col tempo. Dopo un decennio quando Atene, domata dalla sua stessa energia, aveva stabilito un confine di zone d’influenza con la Persia (450) e una tregua con Sparta, Tebe batté gli ateniesi a Coronea (448) e tornò il centro d’una risorta confederazione beote, con la restaurazione dei suoi antichi governi aristocratici. Tre anni dopo fu sancita una «pace di trent’anni» tra Sparta e Atene. In astratto, Pindaro morì — a ottant’anni, in Argo, a fianco dell’amato, meraviglioso Teòsseno — rasserenato e vendicato.
Nei suoi epinici la severa tristezza viene sempre velata, perché non ci si presenta in gramaglie agli Dei, e la deprecazione, non meno del dolore, si purifica nella gnome perché
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l’«invettiva» archilochea Pindaro si era severamente proposto di bandirla; e consigliava di chiudere nell’ombra il dolore dell’uomo.
Ma sentì certo molto acutamente il tramonto di ciò che aveva amato e creduto eterno e mai veramente veduto, quello che noi
diciamo troppo esternamente il suo ‘ideale aristocratico’ o, meglio, il suo arcaico mondo dorico. Soprattutto proprio nella sua
apparente vittoria. Non era più il regno degli Eroi, quello di Pausania, o quello del tristo e corrotto Leotichide. I «buoni»
erano spesso di là, erano un Aristide, un Cimone, un Temistocle; di là, lo sentiva, avvenivano tutti gli scandali, compresi quelli
che Sofocle chiamava, con parola ambivalente e sacrale, deinà, qualcosa di terribile, bellissimo e invincibile, e nulla, aggiungeva,
è più deinón dell’uomo. Di quell’uomo che per Pindaro era sempre «un sogno d’ombra», nulla senza il divino, anzi nulla proprio
nella luce del divino.