Eppure i bambini sono là, coi loro corpicini teneri e il loro ignaro candore. La loro vista suscita nella madre una sorta di vaneggiamento, in cui ricorre, come un motivo ascoltato in un'assorta assenza, la consapevolezza della loro vita precaria. Ne nascono ipotesi e le lacrime sgorgano e una segreta tensione trema nel tono delle parole; poco dopo Giàsone avverte il turbamento e il pianto e ne chiede il perché: "nulla: pensavo ai figli". Il conflitto fra questi richiami di maternità e di puerizia e la necessità dell'azione che li supera diviene tragica fluttuazione e alterno prepotere di voci nel famoso monologo. Quegli occhi insistenti che la guardano e quell'estremo riso sembrano accendere il barlume d'un pentimento, che è a un tempo un mancamento del cuore. Tutta una vita di dolci cure materne ripalpita, spenta e vana; l'audacia si eccita e vuol vincere l'esitante viltà. Ancora il cuore disvuole ciò che volle, finché la deprecata protervia lo travolge. Allora è il sublime patetico addio, non tanto alla vita dei figli quanto alle loro gracili membra, addio alla bocca diletta, alla bella persona, alla mollezza delle carni, della pelle, dell'alito dolcissimo. La radice della vicenda è colta da Medea stessa sul limitare del commiato: ella intende quello che fa, ma "la passione più forte". L'uccisione avviene più tardi, dopo il racconto del Nunzio. È preceduta da una breve e convulsa battuta della protagonista, su un ordito d'immagini militari: "cuore, no, non lo fare", aveva detto; "Coraggio, cuore, all'armi", dice ormai insofferente d'indugi, e si immerge nell'azione a capofitto, chiudendo la memoria e scontando le lacrime postume, in una condizione d'irreparabile infelicità.
Di fronte alla grandezza di questo personaggio rimasto come isolato nella storia del teatro, le altre figure appaiono scialbe. Forse l'odiosità di Giàsone, che solo nel finale trova accenti sinceri piangendo i figli, è eccessiva e finisce con l'impoverire il contrasto. Ma forse intenzionalmente il poeta vuol creare attorno a Medea una corrente di simpatia che si mescola al raccapriccio. Negli spettatori, come qua e là nel Coro, resta uno sbigottimento perplesso che investe la stessa generale considerazione dell'anima femminile, nella terribilità della sua violenza e nell'impeto delle sue rivendicazioni. D'altra parte, dalla stessa eccezionalità del carattere di Medea sembra nascere la spettacolosa soluzione ex machina, che ripresenta l'inesorabilità della protagonista in una luce di magica, conturbante intangibilità.
F. M. P.