SECONDO NUNZIO: Una cosa che a udirsi e a dirsi è breve: morta è la sacra maestà di Giocasta.
CORIFEO: Ah, sventurata! E che cosa l’ha uccisa?
SECONDO NUNZIO: Lei da sé. Ma l’aspetto degli eventi più doloroso manca: tu non vedi. E tuttavia, per quanto mi ricordo, saprai le pene di quell’infelice. Quando, tutta turbata, ebbe varcato la porta del vestibolo, puntò direttamente al talamo nuziale, strappandosi i capelli con entrambe le mani. Come entrò, chiuse da dentro la porta, ed ecco che chiamava Laio, spento da tempo, e quei remoti amplessi rammentava, per cui quello era morto, lasciando lei che generasse al figlio una dannata figliolanza. E pianti faceva su quel letto, dove duplici erano stati i suoi parti: un marito dal marito, e da un figlio figli. Come, dopo questo,morì non lo so più. Èdipo infatti si precipitò dentro gridando, e non ci fu possibile, per causa sua, vedere fino in fondo la rovina di lei; non guardavamo che lui, che s’aggirava avanti, indietro. In quel vagare, ci chiede una spada, e poi dove trovare quella moglie non-moglie, quel materno solco, duplice, di lui, dei figli. Era fuori di sé. A indicarglielo è stato qualche dio, non un uomo, nessuno di noi altri che stavamo lì presso. Con un urlo spaventoso balzò contro la porta a due battenti, come se qualcuno lo guidasse, divelse dai sostegni i serrami, facendoli curvare, e piombò nella stanza. E là vedemmo impiccata la donna, in un intrico di lacci attorti. Lui, come la vede, con un mugghio tremendo allenta il cappio sospeso. Sventurato! Quando lei, quell’infelice, giacque a terra, allora si vide uno spettacolo terribile. Ché dal corpo di lei strappò le fibbie dorate dei vestiti, che l’ornavano, le sollevò, vibrandole sull’orbita degli occhi suoi, dicendo, press’a poco, che così non avrebbero più visto le sventure patite e il male fatto, visto avrebbero solo nella tenebra quelli che non dovevano, né avrebbero riconosciuto quelli che voleva. Con simili canzoni, sollevava le fibbie e si colpiva molte volte, non una sola, gli occhi, e sanguinanti i bulbi gli bagnavano la barba, non con un rosso stillicidio viscido: era una pioggia nera, una profluvie di grandine e di sangue. Questi mali sono esplosi da entrambi – una sciagura non per uno soltanto, ma comune al marito e alla sposa.
Prima d’ora, quella prospera sorte era davvero prospera: adesso, in questo giorno, nulla manca: desolazione, pianto, morte, vergogna, quanti nomi ha la sventura.
CORIFEO: Ha qualche tregua adesso l’infelice?
SECONDO NUNZIO: Grida, dicendo che le porte s’aprano e che si mostri al popolo di Tebe chi uccise il padre suo, chi della madre fu – dice cose oscene, irripetibili. Vuole cacciare sé da questa terra, non restare più in casa, maledetto, proprio in base alle sue maledizioni. Ma non ha forza, gli occorre qualcuno che lo guidi, ché il morbo è troppo grande da sopportare. Lo vedrai. Già s’aprono le porte: avrai di fronte uno spettacolo che moverebbe un nemico a pietà. [Esce, mentre entra Èdipo, brancolante.]
V° Stasimo
CORO: Sventura tremenda a vedersi, la più tremenda di quante ne vidi mai. Quale mai follia, sciagurato, su te s’avventò? Quale fu quel dèmone che col più lungo dei lunghi balzi piombò sul tuo destino sinistro? Ah, misero te! Guardarti non so, benché siano tante le cose che io domandare, sapere, guardare vorrei. Che brivido orrendo m’ispiri
ÈDIPO: Ahi ahi ahi ahi, meschino me! Dove mai me ne vado? E la voce mia dove mai se ne vola di qua, di là? Ahimè, dove balzi, destino! CORIFEO: Nell’orrido, inguardabile, inudibile.
ÈDIPO: Oh nube mia di deprecabile buio indicibile, cali indomabile, ineludibile. Ahimè, ahimè, ripeto. In me l’assillo penetra di queste sferze e la memoria dei miei guai.
ÈDIPO: Del padre mio non sarei l’omicida, né sarei chiamato sposo di chi madre fu. Ora non ho più dèi, figlio dell’empietà, e procreai con chi diede la vita a me. E se c’è un male che tutti li superi, d’Èdipo, questo, fu.
ÈDIPO: Auguro a te felicità, che un dèmone vegli su te, per questo loro avvento, meglio di quanto non vegliò su me. Figlie mie, dove siete? Qua, venite, venite in queste braccia mie fraterne, che vi fanno vedere le pupille, così splendenti una volta, del padre che vi diede la vita, in questo stato: di quel padre che io, senza vedere, senza indagare, fui per voi, dal solco arato donde un giorno nacqui anch’io. Io non posso vedervi, ma vi piango, pensando al resto della vita amara che vi daranno gli uomini da vivere. A quali radunanze andrete mai di cittadini, a quali feste? Certo ne tornerete a casa tutte in lacrime, invece di godervi lo spettacolo. E quando poi sarete giunte al punto delle nozze, chi mai, chi rischierà, figliole mie, di prendersi quest’onta, che toccherà non meno voi che quelli che mi diedero vita? Quale male è assente? Vostro padre uccise il padre; arò il solco materno dove fu seminato lui stesso e germogliò; ed ebbe voi da quel grembo che fu per voi, come per lui, fonte di vita. Di queste offese sarete bersaglio. E chi vi sposerà? Nessuno, figlie. Cioè, la vostra sorte non sarà che un arido intristire senza nozze. Figliolo di Menèceo, tu sei l’unico padre rimasto a queste due – ché noi che demmo loro vita siamo morti tutt’e due: – non lasciarle andare in giro (sono della tua stirpe) pitoccando senza marito, non renderle pari a me nelle sventure. Abbi pietà di loro, guarda come sono piccole, senza nessuno all’infuori di te. Sei generoso: mostrami l’assenso toccandomi la mano con la tua. A voi, figliole mie, se foste in grado di capire, direi tante altre cose. Vi dico questo: fate una preghiera, un voto: ed è di vivere dovunque, di volta in volta, l’occasione arrida, ma d’ottenere una vita migliore di quella ch’ebbe in sorte vostro padre...
CORO: Abitanti dell’avita Tebe, questo è Èdipo, che il famoso enigma sciolse, che fu potentissimo, la cui sorte senza invidia non fu rimirata mai: in che gorgo di tremendi guai, guardate, è giunto ormai! Cosicché nessun mortale, se si guarda all’ultimo giorno, è dato reputare mai felice, prima che senza sofferenza varchi quel supremo limite.