LA VITA
Figlio di una sorella di Simonide, Bacchilide nacque anch'egli nell'isola di Ceo e probabilmente seguì lo zio in molti dei suoi viaggi. La sua nascita è da collocarsi nello stesso periodo di quella di Pindaro, cioè intorno al 520 a.C., e lo stesso può dirsi della sua morte, avvenuta intorno alla metà del V secolo a.C. Forse iniziò la sua attività in Tessaglia e in Macedonia, dove scrisse un encomio per Alessandro, figlio del re Aminta. Dopo il 476 si ritrova alla corte del tiranno siracusano lerone, dove gareggia con Pindaro, riuscendo infine a prevalere su quello: infatti gli viene preferito nel compito di celebrare con un epinicio la prestigiosa vittoria olimpica ottenuta da lerone nel 468 a.C. La sua attività di poeta itinerante lo condusse in molti luoghi del mondo greco, fra cui Atene, Egina e Metaponto. Il fatto che nel 458 gli abitanti di Ceo diedero a Pindaro, e non a lui, l'incarico di comporre un peana indurrebbe a ritenere fondata la notizia data da Plutarco (Moralia, 605 c), secondo cui il poeta sarebbe stato esiliato dalla sua patria o, comunque, se ne sarebbe allontanato.
L'OPERA
Fino al 1896 Bacchilide era per noi poco più che un semplice nome, essendo andata completamente perduta la sua opera.
Svantaggiato dall’inevitabile confronto con Pindaro, solo da poco Bacchilide è stato sottratto a esso e considerato autonomamente, nella sua ricca personalità artistica.
Diversità, infatti, non è necessariamente sinonimo di inferiorità, e anche se di fatto i due poeti gareggiarono nel contendersi i favori dei loro potenti mecenati - primo fra tutti Ierone di Siracusa - il loro percorso ideologico-letterario procede su due piani paralleli.
Gli Epinici
Il confronto con Pindaro, canonico presso gli antichi, ha di certo nuociuto a Bacchilide ed è stato causa non ultima dell’eclisse della sua opera, assai meno letta di quella del rivale tebano. Del resto anche la critica moderna non si è sottratta alla tentazione di enucleare i caratteri peculiari dell'arte bacchilidea a partire da quelli presenti nell’epinicio pindarico, specie quando si tratta di composizioni che i due scrissero in “concorrenza”, per celebrare la stessa vittoria, come accadde per quella riportata da lerone nella corsa dei carri ad Olimpia, nel 468 a.C.
Da un punto di vista strettamente formale l'epinicio bacchilideo non presenta differenze rispetto a quello di Pindaro, salvo che per uno spazio maggiore riservato al mito, con la conseguente riduzione di quello dedicato all'attualità e, soprattutto, alla gnome. Ciò non deve far pensare però a una più profonda religiosità di Bacchilide, ché anzi in lui il racconto mitico ha perduto quasi del tutto il suo carattere di storia sacra, per divenire bella favola, narrata con quel gusto per il meraviglioso e il fiabesco che è caratteristico deiranima ionica. A differenza di Pindaro, Bacchilide non cerca nelle saghe eroiche paradigmi etici ed esistenziali, ma solo quello che nei secoli a venire vi cercheranno l’arte e la poesia dell’Occidente: un mondo popolato da figure grandiose e magnanime, agitate da profondi sentimenti e passioni che sembrano riprodurre su scala assai più elevata quelli che scuotono gli uomini comuni. Queste figure divine o semidivine si muovono in un universo ‘teatrale’, costruito a loro immagine e misura, un universo le cui coordinate obbediscono a una scenografia sfarzosa e raffinata, anche se appiattila spesso su una superficie priva di spessore prospettico: scintillanti e policromi bassorilievi, i quali proiettano il lettore in una dimensione rarefatta, che ha i colori del sogno.
Certo, questo tipo di arte così vigilata e calligrafica, nella quale sembra talvolta di percepire le molli fragranze della terra di Ionia, può sembrare manieristica rispetto alla sublime grandiosità delle folgoranti immagini pindariche, ma essa appare per molti versi più vicina al nostro gusto di lettori moderni, avvezzi a concepire il tempo (anche quello letterario) più come flusso e durata, che non come immobile eternità.
Molli sono i caratteri che in Bacchilide possono in qualche modo considerarsi eredità simonidea, e fra essi principalmente la capacità di analisi psicologica e lo spiccato senso del pathos, che diviene spesso melanconica riflessione sulla caducità delle cose e sul destino di morte dell'uomo.
Nell’Epinicio III il grido dolente di un'umanità soggetta al crudele capriccio della sorte è affidato ad un personaggio storico (un’eccezione rispetto agli schemi tradizionali del genere). Creso, il potente sovrano di Lidia, non vuole sopravvivere alla conquista del suo regno a opera dei Persiani e decide di suicidarsi insieme ai suoi cari.
Allora fa innalzare un rogo nell'atrio della reggia e, dopo esservi salito sopra insieme con la moglie e le giovani figlie, ordina a un servo di appiccarvi il fuoco, non senza aver prima levato un amaro lamento all’ingratitudine degli dèi, e soprattutto a quella di Apollo, da lui particolarmente onorato.
A questo punto, dopo aver raggiunto il suo vertice, la tensione del racconto si allenta e si placa per il verificarsi di un prodigio divino: Zeus scatena una tempesta di pioggia, che spegno le fiamme del rogo, e Apollo conduce Creso e i suoi nelle remote dimore degli Iperborei, le favolose genti deirestremo nord, sottraendoli alla morie.
Nell'Epinicio V Eracle, disceso nell’Ade per portare sulla terra il mostruoso cane Cerbero (è una delle celebri ‘fatiche'), s'imbatte nell’ombra di Meleagro, splendente nella sua armatura, e a quella vista egli incocca istintivamente una freccia all'arco, pronto a combattere. La tensione del racconto tocca anche in questo caso il suo apice per poi allentarsi di colpo quando Meleagro rassicura Eracle, dicendogli di essere solo un’immagine priva di vita, e gli narra la triste vicenda che lo vide morire per mano della sua stessa madre. Allora il più forte fra gli eroi greci si commuove fino alle lacrime e pronuncia parole amarissime sul triste destino che accomuna tutti gli uomini.