conclusione che Erodoto si dimenticò di precisare. Ma non si può credere che Pindaro ci andasse prima, in età infantile; dovettero esserci schiarite che aprirono, almeno eccezionalmente, quei confini pieni di rancore comunale. Certo ad Atene ebbe il suo principale maestro, Laso di Ermione, riformatore del ditirambo, ricordato da Pindaro con considerazione. Vi conobbe forse Simonide e certo Eschilo, di cui ammirò «il linguaggio grande». Molte cose avrà ammirato ad Atene, e soprattutto gli ateniesi, la loro cultura acerba e pia, già protetta dai Pisistratidi, la loro «agorà tutta arte», come la evocò dopo la distruzione quando non poteva essere in gran parte che un indimenticabile ricordo.
Ma la rivoluzione democratica non possiamo pensare che l’approvasse: una ristrutturazione numerica, che ignorava i dolci legami feudali, le tradizioni senza tempo delle fratrie, perfino i patronimici, perfino il ritmo lunare dell’anno e il sacrale numero dodici sostituiti dal computo solare e dall’aritmetico dieci. Pindaro avrà ignorato queste anticipazioni della Convention e avrà continuato a vedere «l’altra» Atene. Ma, da ragazzo e dopo, avrà anche trovata naturale la crociata del vecchio mondo, Sparta in testa, braccio secolare di Delfi, contro quella città orgogliosa. È notevole tuttavia che non dicesse
mai una parola contro Atene. Potendo, loderà perfino gli Alcmeonidi, se non come democratici, almeno come esuli che avevano tanto operato per la ricostruzione del tempio delfico di Apollo distrutto da un incendio. Sarà felice, un giorno lontano, di poter celebrare Atene «cittadella dell’Ellade» e — finalmente — «divina».
Se di Atene fu ospite, a Delfi fu di casa. L’aureo particolarismo greco permetteva più patrie, e Delfi era quella della fede, era la città di Apollo, il Dio per cui aveva, osserva Jaqueline Duchemin, una devozione più segreta. Dobbiamo pensarlo nell’intimità sacerdotale degli hosioi («i santi»), partecipe dei segreti del santuario in cui il misticismo più sincero si fondeva con quella che diciamo la «politica», categoria di cui non solo Pindaro e il vecchio mondo, ma neppure i nuovi uomini che venivano creandola avevano la minima coscienza. Avrà partecipato alla trascrizione e alla delicata interpretazione dei messaggi del Dio, trasmessi dalla voce della Pizia. Ciò poteva far parte delle competenze di un poeta o, come ancora si diceva, d’un «cantore», aoidós. «L’esprit de Delphes», quella Empfindlichkeit, quel riformismo sottile e quasi inconscio, quell ’illuminismo devoto, hanno influenzato e incoraggiato profondamente lo spirito e la poesia di Pindaro. Il culto è anche luogo, e
particolarmente nel mondo antico il divino non era «dovunque». Pindaro è impensabile senza quelle pietre, quelle rovine ancora oggi incomparabili e diverse, nella valle solitaria dominata dalle Fedriadi, e soprattutto non deve essere pensato senza il suo sacerdozio, a cui l’oracolo stesso diede un eccezionale crismale che sarà ricordato per secoli con un rito commosso.41 dialoghi «delfici» di Plutarco danno un’idea chiara di quel mondo, in una fase molto più moderna ma non più interiore. Le eterne sentenze che brillavano sul tempio di Apollo erano sempre il punto di partenza di ogni meditazione. La più celebre, il «conosci te stesso», o meglio il suo significato ben definito da Plutarco — la nullità del mortale di fronte all’eterno5 — appare in Pindaro non solo con frequenza, ma con la perentorietà non petita e la violenza del dogma. Così l’arte si faceva davvero servizio divino. E «servire » diventava gioia: un giorno — Pindaro era già un «celebrato profeta», aóidimos prophata — appena gli venne all’orecchio che nel santuario, per le Prossenie, mancavano i coreuti del sacro peana, Pindaro accorse «per togliere di difficoltà i fedeli»: «sono sceso col cuore di un ragazzo che obbedisce alla nobile madre» (fr. Peoni 6). Sono sceso: era il termine che si usava per la Pizia,é di regola una ragazza delle montagne intorno a Delfi, il Parnasso di Apollo,
l’Elicona dove Esiodo aveva «visto» la danza delle Muse. Non può essere casuale che le prime composizioni sicuramente databili siano connesse con il santuario.
La prima senza controversie è la decima pitica, in onore di un campione degli Alèuadi, la più potente dinastia della Tessaglia con gli Scopadi, commissionata dal più autorevole. Torace, «tiranno» di Làrissa. Si apre con un’invocazione o meglio un nesso quasi programmatici: «Felice Lacedèmone, /
fortunata Tessaglia, / l’una e l’altra regnate da una stirpe / del sangue di Eracle dalla nobile guerra...». Era il 498 e Pindaro aveva vent’anni. E evidente l’orgoglio del giovanissimo per quella «ospitalità cortese» e sono probabili suoi disegni o speranze su quella dinastia di cui approvava senza riserve la «giustizia nella Città» o, diremmo noi, la «politica». Ma era già una pericolosa, nuovissima politica.
Nel 498, senza che nessuno se ne fosse veramente accorto, il memorabile scontro «tra la Grecia e l’Asia» era cominciato. Il cinquantennio delle «guerre mediche» avrebbe trasformato nel profondo la civiltà greca, e si sa che è quasi impossibile prescindere dall’awenuto. Perfino uno storico come Polibio rimprovera Pindaro d’avere tradito la storia, cioè la causa della Grecia, e cita questo passo di un iporchema: «dolce è la guerra per chi non
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ne ha esperienza: ma a chi la conosce ne trema infinitamente il cuore, se si avvicina...», completato da un’altra testimonianza: «ogni cittadino dia serenità alla vita pubblica e miri alla Pace, che fa grandi i cuori, che è tutta luce; tolga dalle menti il Disordine con le sue vendette, che porta povertà e nutre di odio la giovinezza...».
Parole così responsabili, idealistiche e pindariche che postulano un «momento» giustificatore in
realtà non abbastanza precisato da Polibio. Ma i grecisti moderni, più patrioti dei greci, hanno calcato la mano; Ticho von Wilamowitz per esempio vide addirittura nella decima pitica un minaccioso sottinteso contro Nasso
colpevole di difendersi dall’attacco persiano. Semplicemente, l’ode è al di fuori degli eventi; a parte lo spirito del ‘genere’ poetico e della gara liturgica, concepita sempre come «tregua», per Pindaro quegli eventi erano piuttosto gravi e minacciosi che giudicabili con un sentimento sicuro. Al tempo dell’ode si sapeva in concreto: che la Ionia, tributaria di Dario, il «re senza pari» come lo chiamerà un combattente, Eschilo, si era ribellata; che la rivolta era guidata da Aristagora ex tiranno di Mileto e suddito di Dario, compartecipe della spedizione contro la libera Nasso e geloso rivale dell’ammiraglio persiano; che aveva chiesto e non ottenuto
l’aiuto di Sparta e che Atene ed Eretria avevano mandato alle consorelle ioniche un aiuto, poco più che formale, di dieci triremi; che i ribelli erano stati battuti e, con orrore universale, avevano incendiato il santuario della Dea Madre a Sardi. Il giudizio e il volere divino non si erano chiariti.
Sui tragici sviluppi che seguirono, invece, non è pervenuta alcuna parola di Pindaro: la dura repressione della rivolta, la distruzione di Mileto che sconvolse il popolo ateniese, la spedizione punitiva di Dario contro Atene ed Eretria. Il «re senza pari» certo ebbe la mano pesante; non solo non ammise riparazioni, ma impose a tutte le Città greche una scelta tra la guerra e il vassallaggio; ma era anche vero che alla sua immensa forza univa la più provata venerazione per gli Dei della Grecia. Il mondo laico, lo stesso dualistico mondo cristiano, non può capire del tutto che cosa significasse. Ci limitiamo a riferire il giudizio conclusivo che darà un politico realista e protagonista dei fatti come Temistocle: «tutto hanno fatto gli Dei e gli Eroi», e ad aggiungere che questo giudizio va inteso alla lettera.
Prima di quegli eventi il volere degli Dei poteva trapelare solo attraverso le parole della profetessa di Delfi; e Delfi era estremamente prudente o, come si dirà più tardi, «medizzava». Ma sarebbe un errore pensare
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alla banalità del calcolo o dello spavento. Più tardi il santuario non mancherà di coraggio e di una dignità che daranno pieno credito ai miracoli tramandati da Erodoto (Vili, 36-39). Questo Vaticano greco, che non godeva dei vantaggi del razionalismo e del dualismo moderni, sentiva tragicamente la propria responsabilità. L’ammiraglio di Dario, navigando verso l’Attica, si fermò a onorare Delo, dove era «nato» Apollo. Pareva continuare, accanto alla intollerabile violenza — la hybris —, la sfarzosa pietà di Creso di Lidia, compensata da un miracolo celebrato da Bacchilide.2 Ippia, il philómusos, il pio, pareva ricondurre ad Atene nonostante tutto il buon tempo, «il tempo saturnio» come fu ricordato, di suo padre Pisistrato. Era come se gravasse sull’Ellade una forma di vita così nuova da giustificare lo sgomento e il silenzio. Tutte le scelte delle Città ebbero una riserva non propriamente politica e non si risolsero in azione, tranne quelle di Atene. Ma la vittoria di Maratona fu l’evento chiarificatore. Gli spartani, i primi soldati dell’Ellade, trattenuti senza disapprovazione di nessuno dalla particolare fase della luna, arrivarono tardi sul campo di battaglia e manifestarono una profonda soddisfazione su cui nessuno avrebbe ironizzato. Era una liberazione non solo dai persiani, ma dall’oscurità del futuro. Sul campo
erano rimasti dalla parte «giusta» — come a Jemappes nel 1792 — duecento caduti.
Il prudente Dario non ripetè la spedizione. Certo a Ecbàtana ci si proponeva di riprendere e risolvere definitivamente la questione greca, ma in Grecia, proprio per la grandezza del pericolo passato, si poteva pensare che fosse finito e che si fosse tornati al mondo normale. Le odi di Pindaro del 490, 488 e 486 celebrano la virtù filiale di Antìloco, il prodigio della Gorgone decapitata, la bellezza delle Càriti venerate ad Orcomeno. La democrazia ha esiliato un amico, Megacle, e Pindaro è lieto di celebrarne la vittoria, a Delfi (P. VII). Sempre a Delfi ha conosciuto il giovane, meraviglioso Trasibulo, degli Emmenidi di Agrigento, vincitori alle quadrighe, ai quali il poeta rende un omaggio eccezionale (P. VI). E Trasibulo, perfetto nelle gare pubbliche, è nel convito «dolce come un favo» e la sua presenza, come quella di Attide per Saffo, dissolve i duri confini del reale in una trasfiguranione dionisiaca, leonardesca. L’«inganno» è prezioso, perciò reale, è un «grande mare d’oro» (fr. enc. 5).
Nel 481, dopo una decisione travagliatissima e quattro anni di preparativi, il figlio e successore di Dario, Serse, riprese la marcia, con mezzi e organizzazione enormemente più radicali. Anche la preparazione politica dovette essere adeguata.